lunedì 21 giugno 2010

Il mio amico Eric




Storia di due Eric. Uno è un impiegato delle poste inglese (interpretato da Steve Evets), la cui vita è andata a rotoli da un pezzo. Trent’anni prima lasciò la moglie, suo grande amore, che aveva appena avuto una bimba; non se l’è mai perdonato e non ha saputo mai chiedere (a lei) perdono (mentre la figlia, sorprendentemente, gli vuole bene). A sua volta, è stato lui a essere abbandonato dalla seconda consorte, che gli ha “mollato” anche i suoi due figli, che Eric deve cercare di crescere; ma loro sembrano ribellarsi a un padre che non sentono loro (o così sembrerebbe). E che beve, fa incidenti, si deprime. L’altro Eric è il mito del primo: il grande Cantona, ex calciatore francese amatissimo in Inghilterra soprattutto dai tifosi del Manchester United di cui era il beniamino. A lui, o meglio al poster che giganteggia nella sua camera, si rivolge per disperazione il povero postino (che pure avrebbe dei fantastici amici-colleghi, che lo confortano e cercano di tirarlo su anche in modi esilaranti). E lui, Cantona, sorprendentemente risponde. Con la stessa franchezza, originalità e grandezza d’animo del calciatore da lui tanto ammirato. Insegnandogli a rialzarsi in piedi, a guardare al suo presente e al suo passato e a tirar fuori tutta la sua umanità.
Da un inizio che sembra riprendere i grandi film realistici e sociali di Ken il rosso (Riff raff, Piovono pietre, Ladybird Ladybird, My name is Joe), si passa a una svolta “fantasy” che risulta una simpatica e stravagante soluzione narrativa – sorprendentemente, molto naturale e mai forzata – ma non suona come fuga irritante dalla realtà. Come l’Humphrey Bogart che consigliava Woody Allen in Provaci ancora Sam, così Cantona – interpretato dallo stesso ex calciatore, da tempo lanciato nel cinema ma qui bravo come mai prima – parla a Eric. E lo consola, lo sprona, gli regala le sue massime famose (davvero il calciatore si esprimeva con aforismi ricchi di nonsense, come si può vedere nell’esilarante sequenza sui titoli di coda). E, pian piano, gli fa tornare fiducia in se stesso. E riavvicinare l’ex moglie: una vecchia cartolina e un vecchio paio di scarpe da ballo sono il segno che l’amore tra loro non è mai finito. Poi il dramma avviene lo stesso, anche un po’ troppo calcolato, per colpa di un delinquente che ricatta uno dei ragazzi cui fa da padre. Ma l’uscita definitiva dal tunnel, in questa irresistibile commedia umanissima di Ken Loach (uno dei suoi film più belli, e più positivi) dove le persone sono piene di contraddizioni come nella vita reale (l’ex moglie, sola e triste, che rimorchia giovani ragazzi negli hotel), avviene non solo evocando le gesta, sportive, del grande calciatore francese (e nel film si vedono alcune delle sue giocate più belle e spettacolari: che campione…) e poi con una trovata d’antologia chiamata “operazione Cantona”. Bensì con l’accettare il miglior consiglio che il fantasma del suo mito (ma è davvero solo un fantasma?) gli ha regalato: devi sempre fidarti dei compagni di squadra. Ovvero, degli amici.

Antonio Autieri
Tratto da: www.sentieridelcinema.it

mercoledì 2 giugno 2010

The Road. I nostri figli nel Giorno del Giudizio


Viaggio in un’apocalisse che è già qui. Un mondo ridotto in cenere e spazzatura dove la speranza è un paio di scarpe. E quel bambino. «Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato»




di Emanuele Boffi
Tratto da: www.tempi.it


C’è tutto e solo quello che è essenziale per dire che la vita è speranza. Non ci sono più cose, nomi, colori. Solo il grigio della sabbia lavica. Solo un padre, un figlio, due proiettili, una pistola, una fame primordiale. E ai bordi della strada solo ciuffi ammuffiti di gramigna. Tutto è ridotto all’essenziale, come una verità che necessita di essere scarnificata dell’accessorio per manifestare la sua ossatura salvifica. Ci sono le carcasse metalliche delle auto, il buio plumbeo del cielo, le notti senza stelle, la compagnia dei cadaveri nel letto, un feto impiccato grondante sangue. «Niente che tu non abbia già visto, figlio mio».
Arriva nelle sale del nostro paese The Road, film dell’australiano John Hillcoat tratto dall’omonimo romanzo premio Pulitzer 2007 di Cormac McCarthy, ed è già un miracolo. Non si trovava un distributore italiano disposto a investire su una storia così «angosciante». È vero. Fa stare male. Ma chi ha amato il romanzo amerà anche questa sua riduzione cinematografica, fedele sin nel dettaglio a quell’apocalisse ontologica che il critico del New Criterion ha definito «un tour nel Giorno del Giudizio».
Non era scontato che tutto ciò avvenisse. I celebrati fratelli Coen che avevano messo su bobina la storia di Non è un paese per vecchi, meritandosi l’Oscar, avevano fatto i furbi. Là, alle pagine della storia di un furto e di un inseguimento, McCarthy aveva inframezzato altre pagine, quelle del diario dello sceriffo Ed Tom Bell che di quella caccia assassina davano il senso e il controcanto. I fratelli Coen le avevano marginalizzate, nascoste, rendendoci solo il canovaccio del dramma, ma non la sua filigrana, il suo senso, la sua aria fresca. Ci avevano dato le rughe che attraversavano il volto dello sceriffo, ma non ci avevano detto di che cosa fossero figlie quelle rughe, quali percorsi avessero seguito quei solchi sull’epidermide di un vecchio sceriffo saggio. Ci avevano dato la suggestione, ma ci avevano privato della sua origine, per paura, indolenza o, forse chissà, per codardia.
Questa volta, con un altro regista, con un altro libro, con un altro film che forse non riceverà nessun premio perché è duro, è nero pece, fa venire i crampi allo stomaco e soprattutto è un film che narra di un sacrificio redentore, forse questa volta potremo dire che tradurre non è stato tradire, e che il padre è quel padre e che il figlio è quel figlio, senza nessuna edulcorazione hollywoodiana, senza nessuna introspezione psicologica, senza nessuna blandizia sentimentale: «Credo che sia ottobre – sono le prime parole del padre –, ma non ne ho la certezza. Ogni giorno è grigio, freddo. Il mondo muore. Presto tutti gli alberi del mondo cadranno».
Come nel romanzo si è subito in viaggio. Qualche flashback ci restituisce il volto della madre, una dea disfatta che non ce l’ha fatta a sopportare l’incolore vuoto di un universo in cui «non c’è dopo. Adesso è dopo». Il padre e il figlio vanno a sud, in cerca di caldo, imbattendosi di tanto in tanto in qualche altro sopravvissuto a una catastrofe di cui non si dice né nome né motivo. In questo esodo familiare, l’unica certezza è costituita da avere le scarpe ai piedi, qualche brandello di cibo rovistato nella spazzatura e il fatto che «il bambino è la mia garanzia e se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato». La strada non ci risparmia nulla, ma ci fa vedere tutto attraverso gli occhi del padre e del figlio: i luridi cenciosi che stanno ai bordi delle strade come aviatori abbattuti, antropofagi tagliagole pronti a sgozzare bambini per i loro sabbah mefistotelici, dispense piene di corpi umani destinati alla tavola imbandita di qualche cannibale subumano. Il bambino vede tutto, tutto. I cadaveri penzolanti dalle travi («Non è come pensi. Si sono suicidati. Perché? Lo sai perché»), gli incendi, le esplosioni, la distruzione. Vede il padre spiegargli come mettere la pistola in bocca, «se ti prendono puntala in alto e poi premi il grilletto». Vede il padre rammendarsi una ferita con una pinzatrice e un brandello di scotch. Vede qualche immagine del mondo come fu, ma solo su un libro, al chiarore incerto di una molotov.

E l’educato diventa educatore
In questo viaggio sul fondo della Geenna il padre e il figlio «sono uno il mondo intero dell’altro», ma ad ogni passo questo mondo senza domani si trasforma. Anche all’inferno ci sono sprazzi di purgatorio. Una Coca-Cola, una sigaretta, un whisky, un bagno con lo shampoo. Soprattutto la certezza che «noi portiamo il fuoco», noi che, per una grazia immeritata, protendiamo le mani nel buio e ringraziamo «per la zuppa e i tacos». Sarà il figlio la salvezza del padre contro la disillusione, il nichilismo dal volto disumano e il grigio nulla che avanza. «Per me è come Dio», dirà ad un certo punto il padre, costretto ad arrendersi al richiamo del bambino che lo supplica di aiutare un vecchio cencioso: «Dici sempre di stare attento ai cattivi. Quel vecchio non era cattivo. Non vedi più la differenza». E quando il padre gli rimprovererà di volersi preoccupare per chi «morirà comunque», il figlio si farà educatore del suo educatore: «Tocca a me, invece. Tocca a me preoccuparmi».
Cormac McCarthy ha rilasciato due o tre interviste nella sua vita. Non di più perché, come disse una volta alla regina dei talk-show americani Oprah Winfrey, «non penso che sia una cosa buona per la propria testa. Tu cammini sul tuo lato della strada e io sul mio». Vive come un eremita a El Paso, Texas, è nato in una famiglia cattolica, è stato sposato tre volte, ha trascorso dei periodi della sua esistenza senza avere nemmeno i soldi per comprare un tubetto di dentifricio: «Vivevo in una baracca del Tennessee e avevo finito il dentifricio. E un mattino sono andato all’ufficio postale per vedere se era arrivato qualcosa. E nella mia cassetta della posta c’era un dentifricio. La mia vita è piena di episodi come questo. È sempre stato così: quando la situazione si faceva critica, succedeva sempre qualcosa». Ha fatto il rivenditore di auto, ha sbarcato il lunario lavorando nei fienili, la sua seconda moglie, Annie, una ballerina, ha raccontato che «venivano a offrirgli duemila dollari per parlare in qualche università e lui rispondeva che ciò che aveva da dire stava nel suo libro».
McCarthy ha detto di aver scritto La strada per suo figlio, John Francis, cui l’opera è dedicata. Ha dichiarato che il libro è per metà opera sua perché «quando hai un figlio vieni risvegliato dal tuo proprio sonno» e sei costretto «a guardare le cose con un nuovo sguardo. Ti costringe a pensare al mondo». Il padre e il figlio del romanzo e del film sono McCarthy e John Francis, ma, come in ogni narrazione dal sapore biblico, sono anche ogni padre e ogni figlio in viaggio verso il caldo del mare. «Il mare è blu? Non lo so, un tempo lo era». La strada di McCarthy non è Sulla Strada di Jack Kerouac. McCarthy ha una meta – un destino, un mare cui arrivare – e un figlio – un compito, un legame da proteggere –, non propone la mistica del viaggio fine a se stesso, interrotto solo da incontri casuali e irrilevanti, che nella banalizzazione letteraria moderna è diventato il refrain secondo cui «non importa la meta, quel che conta è il viaggio». E invece no, quel che conta è la meta, i compagni di strada, «portare il fuoco». «Dov’è il fuoco papà? Non so dov’è. Sì che lo sai. È dentro di te. È sempre stato lì».

«Noi portiamo il fuoco»
The Road è una storia di educazione e redenzione. Ed è la storia di un’eredità, perché ogni figlio è l’eredità che ogni padre lascia al mondo. Parlare a un figlio è come parlare a Dio, non si può imbrogliare, non si può tergiversare; sì sì, no no. «Noi siamo i buoni. Noi portiamo il fuoco». Ma il viaggio in cui ci conduce McCarthy è la scoperta che le parole che ti rivolge il figlio sono le parole che ti sta sussurrando Dio. Sono l’ultima speranza di conversione che ci è data. La nostra conversione, ma non la sua salvezza. Quella non dipenderà da noi. Arriverà dal fondo della strada, camminando sulla spiaggia con una borsa e un fucile a tracolla.