giovedì 5 giugno 2008

Pansa: guardiamo ai grandi uomini della nostra storia, per liberarci da ideologie ancora forti

A pochi passi da una delle piazze più belle d’Italia, quella del Duomo di Cremona, in un albergo un po’ troppo moderno per una città tanto antica, Giampaolo Pansa sorseggia il caffé del mattino sommerso da una montagna di giornali. Non c’è aria da intervista: quel che si può fare è tutt’al più una bella e lunga conversazione, o «intervista accidentata», come lui stesso la definisce.
Pansa è in giro per l’Italia a presentare e raccontare il suo ultimo libro, I tre inverni della paura; ma quando lo incontriamo è reduce dalla presentazione, la sera precedente, del Grande Diario dal lager di Giovannino Guareschi, appena pubblicato da Rizzoli, con introduzione dello stesso Pansa. Chi meglio di lui infatti potrebbe introdurre alla lettura delle vicende, per di più legate alla Resistenza, di un grande spirito libero come quello di Guareschi?
D’altronde di Resistenza Pansa scrive da sempre, fin dalla tesi di laurea. «E mi sono laureato nel ’59: questo per dire che sono cinquant’anni che studio questa storia».

Eppure non l’ha sempre raccontata allo stesso modo: che cos’è cambiato nel tempo?

A una certo punto ho cominciato a fare quel che nessuno in Italia – per lo meno tra chi scrive ed è nell’area, chiamiamola così, di centrosinistra, cioè nell’area dell’antifascismo continuo e fedele ai propri ideali – aveva mai fatto. Sono partito dal principio che per raccontare bene la guerra bisogna far parlare non solo i vincitori, ma anche i vinti. Da qui tutto il filone dei miei libri “revisionisti”, iniziato nel 2002 con I figli dell’Aquila, e che ha avuto come momento culminante la pubblicazione del libro Il sangue dei vinti, con tutte le polemiche assurde che ha scatenato.

Dopo tanti saggi adesso però ha deciso di scrivere un romanzo: perché?

Io avevo già scritto tanti anni fa dei romanzi che in qualche modo sfioravano il tema della guerra civile, ma non avevo mai fatto un "librone" di questo genere. Qui ho cercato soprattutto di raccontare una storia che avevo sempre trascurato negli altri miei libri. Avevo parlato molto dei partigiani, molto dei fascisti della Repubblica Sociale, e molto anche dei tedeschi; però in realtà avevo trascurato una parte d’Italia che fu protagonista silenziosa della guerra, e della quale per altro avevo fatto parte anch’io quand’ero piccolo con la mia famiglia: i civili. La gente, le persone qualunque. I milioni di italiani del centro-Nord che non si erano schierati né da una parte né dall’altra, e che erano stati dimenticati.

Com’è possibile che si sia potuto tagliar fuori il grosso del Paese? Capisco dimenticarsi di una minoranza, ma milioni di persone…

Perché per la retorica della Resistenza (retorica innescata, governata e moltiplicata dal PCI) quelle persone non dovevano esistere. Secondo questa retorica tutto un popolo era andato “alla macchia”. Cito di proposito questa espressione, per richiamare il titolo della prima storia complessiva della Resistenza italiana, pubblicata nel 1947 dalla Mondadori: titolo Un popolo alla macchia, autore Luigi Longo. Un autore fasullo, perché in realtà il libro l’aveva scritto un altro e lui l’aveva firmato. Ma era fasullo soprattutto il racconto, e in particolare il titolo, perché non c’è stato nessun popolo alla macchia. La guerra civile in Italia è stata combattuta da due minoranze di giovani: una minoranza schierata con la resistenza, l’altra minoranza con la Repubblica Sociale.

E in mezzo cosa c’era?

In mezzo c’era quella che Renzo De Felice ha chiamato, citando anche alcuni miei vecchi libri, “la grande zona grigia”. Dove c’erano prima di tutto le donne. Io ricordo mia madre, le mie zie, le mie nonne, preoccupate perché i loro uomini erano esposti continuamente ai rischi della guerra. Queste donne rimanevano a casa, ed erano in preda a uno smarrimento terribile: vedevano sparire i loro mariti, i loro figli, molti li avevano già persi durante la guerra. Ecco perché quest’ultimo libro è pieno di donne, come d'altronde era piena di donne la vita dei civili di allora.

Come mai, a sessant’anni di distanza, c'è una ferita ancora aperta nel Paese, riguardo a questi fatti?

I motivi sono tanti, ma soprattutto ce n’è uno: che sia durante la guerra civile, sia – e soprattutto – nel dopoguerra, in tutte le province del centro-Nord ci sono stati degli ammazzamenti, delle esecuzioni, delle vendette. E questo lo possiamo anche ammettere, come coda fatale della guerra. Ma la cosa terribile è che tutti i corpi sono stati nascosti. Proviamo a pensare: ammazzi trenta persone, poi fai sparire i corpi… quelle trenta famiglie non smetteranno mai di odiarti! di avere questo incubo, che non verrà mai attenuato, questo segreto, che continua a offenderli giorno per giorno!

Naturalmente una dimenticanza così grave ha dei responsabili.

La storia ufficiale della Resistenza è sempre stata egemonizzata dalla cultura comunista, e quindi dagli storici, dai professori, dai giornalisti e dagli scrittori tutti legati al carro del PCI. E poi anche per colpa della Democrazia Cristiana e dei cosiddetti partiti borghesi, che da un certo punto in poi se ne sono sempre fregati, e hanno lasciato campo libero a una storia a senso unico.

Veniamo all’oggi: c’è ancora tanta ideologia, con il suo portato di semplificazioni e di violenza. Perché?

Questo è un Paese disgraziato, con una sinistra che non è mai cambiata e che per tantissimi anni, costretta a stare all’opposizione, ha coltivato nel proprio corpaccione tutti questi virus. Quando sento dire che i collettivi antifascisti, che saranno un centinaio di studenti, occupano La Sapienza e ne fanno una cosa privata, il mio istinto di cittadino (che tra l’altro paga anche La Sapienza) si ribella. Però poi ci sono i professori che dicono che è giusto così, perché c’è il fascismo al governo...

Eppure dopo le ultime elezioni sembra essersi creato un clima diverso, anche se non ancora ben chiaro. A livello politico si parla molto di intese, ma negli ultimi giorni gli scontri a sfondo ideologico si sono moltiplicati, come quelli in università di cui ora si parlava: perché, e cosa significa tutto questo?

Quest’aria da “guerra civile” (usiamo pure questa espressione un po’ forte) si è accentuata ancora di più – e ne sono molto preoccupato – dopo le elezioni del 13 e 14 aprile. Veltroni ha preso una legnata pazzesca, e le sinistre che io ho sempre chiamato “regressiste” sono state messe fuori dal Parlamento. C’è un’area – che non è grande, ma bastano poche persone – che è in preda a questo shock di vedere tornare al governo per la terza volta Berlusconi. Lì dentro c’è un magma così confuso dal quale può uscire qualunque demonio. Io sono stato uno dei pochi ad avvertire che c’è il rischio in Italia di una forma nuova di terrorismo di sinistra. C’è gente delle nuove Brigate Rosse che sta in carcere, e i loro compagni dei centri sociali al corteo del 25 aprile e del 1 maggio hanno portato a spasso le gigantografie con le loro foto. Bisogna stare molto attenti.

Che cos’è che sostiene e alimenta questo clima?

Per spiegarlo faccio un parallelo che potrà sembrare azzardato: i partiti si comportano come i giornali. Io penso che i giornali siano in parte prigionieri dei loro lettori, e che i direttori siano in realtà molto più a destra dei giornali che fanno. Tutti. Sono più moderati, più equilibrati; però a volte fanno un giornale squilibrato, perché sanno che c’è una frangia importante dei loro lettori che li vuole in questo modo. Così si comportano anche i partiti, specialmente in un Paese che, come successo nel 2006, si trova spesso spaccato in due, e dove si può vincere o perdere le elezioni per frazioni di voti. I segretari dei partiti sono vincolati a questa situazione: figuriamoci se Veltroni, per stare sugli argomenti di cui stiamo parlando, potrà mai dire qualcosa che vada contro la vulgata resistenziale. Non lo dirà mai! Già Napolitano ha fatto un atto coraggioso; ma Napolitano non ha più bisogno di essere eletto, mentre Veltroni sì. Quindi, pur di non perdere l’ultimo voto dell’ultimo partigiano dell’ANPI, continuerà a raccontare le solite cose.

Eppure c’è un grande dibattito e anche un fermento culturale all’interno del Pd: non le sembra una cosa positiva?

Io non credo molto a queste cose. Il Partito democratico ha molti problemi, non solo di insediamento territoriale (e come si è visto con quello che è successo al Nord, essere sul territorio e avere rapporto con la gente conta molto), ma soprattutto ha un problema molto più grande, e cioè che è un partito diviso. I convegni di D’Alema, ad esempio, sono funzionali a che cosa? A cercare di scalzare Veltroni e la sua autorità.

Non sembra dare molto credito ai politici...

Primo: io non leggo più le interviste ai politici. Secondo: non sono più costretto ad andarli a intervistare, perché sono in pensione e faccio solo il Bestiario sull'Espresso. Terzo: evito di sentirli parlare, e se guardo un telegiornale e c’è un’intervista politica faccio zapping. Mi spiace ma è così: non ne ho stima.

Facciamo un passo indietro, allora, e torniamo ai grandi personaggi del suo romanzo. Come ad esempio Giorgio Morelli, detto “Il Solitario”, di cui ha parlato a ilsussidiario.net anche Giovanni Lindo Ferretti. Che importanza ha avuto nella costruzione del romanzo?

Prima di iniziare questo libro sono andato con Adele, la mia compagna, a trovare la signora Morelli, Maria Teresa, sorella del Solitario: una signora piccola, di più di ottant’anni, ma una donna di ferro. Mi ha fatto un regalo importante, che mi ha aiutato molto a scrivere questo libro: tutta la raccolta delle ristampe anastatiche della Nuova Penna, il giornale di Morelli. Me lo sono letto tutto, riga per riga, schedandolo: ho impiegato sedici giorni. Solo quando ho finito, ho iniziato a scrivere il libro. Mi sono reso conto di una cosa: che Morelli e il suo compagno di lotta Eugenio Corezzola, che era un liberale, finita la guerra avevano diciannove anni e non solo avevano già fondato questo giornale, ma soprattutto avevano già capito tutto. Quello che Giampaolo Pansa ha cominciato a capire nella maturità e poi entrando nell’età anziana, questi due fenomeni l’avevano incominciato a capire a vent’anni.

Morelli è un cattolico, come quasi tutti coloro che hanno subito le violenze nel “triangolo della morte”. Da laico come si è posto di fronte a questi grandi cattolici?

Pur essendo stato battezzato e cresimato, e aver fatto come tanti della mia generazione il chierichetto, sono e rimango un agnostico. Però c’è un dato di fatto: questi personaggi cattolici appartengono a un partito e a un’esperienza culturale e religiosa che ha consentito anche agli agnostici come me di vivere libero. E qui bisogna dire una cosa che non viene mai ricordata: che la guerra civile in effetti è finita il 18 aprile del 1948, cioè con la vittoria della Democrazia Cristiana.

Vuole ricordare altri personaggi cattolici presenti nel suo romanzo?

C’è Pasquale Marconi, deputato democristiano eletto nella costituente nel ’46, già comandante partigiano di quei pochi partigiani bianchi che c’erano nella provincia di Reggio Emilia. E poi c’è Dossetti, che nel libro è il personaggio del Professore. Ma soprattutto c’è quello che fu il vero oppositore della tecnica dell’omicidio politico nel “triangolo della morte”: il vescovo di Reggio Emilia, monsignor Beniamino Socche. Un personaggio fantastico, un colosso fisico, pieno di energia, devoto a Maria Vergine, ma di una devozione che mai aveva attenuato il suo carattere e il suo decisionismo. E così ingaggiò la sua lotta contro questo Golia rosso che erano i due padroni di Reggio: il segretario della federazione del PCI e il presidente dell’ANPI.

Uno dei grandi uomini che hanno fatto la vera storia d’Italia…

Voglio ricordare un episodio che lo vede protagonista: poco dopo l’omicidio di don Pessina, monsignor Socche va a trovare De Gasperi al Viminale. De Gasperi esce da un consiglio dei ministri stressantissimo (c’erano al governo anche i comunisti) e Socche gli dice: «Presidente, come la mettiamo? Lei sta al governo con i comunisti, e a Reggio Emilia i comunisti mi ammazzano i preti. Che devo fare?» Allora De Gasperi, da vero democristiano austro-ungarico, gli disse: «Monsignore, la strada è già tracciata: oggi con i comunisti, domani senza i comunisti, dopodomani contro i comunisti». Eccola qua, la storia italiana. (estratto da www.ilsussidiario.net)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissima intervista. Non lo dico per dire: m'ha catturata dalle primissime righe e m'ha trascinata d'un fiato fino in fondo.

Molto interessante, oltre che ben scritta.

j ha detto...

Beh, ognuno ha le sue opinioni.
A me lascia un pò perplesso il fatto che secondo Pansa la ferita aperta è soprattutto colpa degli ammazzamenti, delle esecuzione dei partigiani e chiaramente dei comunisti, mentre non ci tiene a sottolineare che forse la ferita l'hanno aperta le stragi nazifasciste come Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine e molte altre ancora.
Se il problema è la contrapposizione ideologica non mi pare che Pansa riesca a dare una lettura superpartes come pretende. E non mi pare che il suo contributo vada verso una pacificazione, mi sembra più che altro una sua fastidiosa continua polemica con il mondo della sinistra. E poi, scusate si fanno tante critiche sui comunisti perchè pretendevano di egemonizzare la visione della storia degli ultimi anni e si finisce dicendo che il vescovo di Reggio Emilia è uno dei grandi uomini che hanno fatto la VERA storia d'Italia!?! Perchè è così grande? Qual'è la Vera Storia? Ah, Ma forse pecco di relativismo...